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Riflessioni a margine

a cura della Dott.ssa Elisa Bertoja
Assistente sociale e Criminologa sociale

Nel nome del padre

L’omicidio resta forse l’esempio di cronaca nera che più frequentemente siamo abituati a veder rappresentato nei tg e sui giornali. Non c’è giorno in cui un delitto non venga portato alla luce della ribalta: mentre beviamo il caffè, mentre ascoltiamo la radio nel dormiveglia del mattino, mentre scambiamo due parole con il vicino. Quasi abitualmente un delitto viene consumato e un altro viene raccontato, marchiato nero su bianco. La così detta “normalizzazione della violenza”.

Tra le mille e una combinazione che caratterizzano l’omicidio ci sono uomini che uccidono altri uomini; uomini che uccidono le donne; mariti che uccidono le mogli; compagni che uccidono le compagne; donne che uccidono uomini; persone che uccidono persone conosciute e persone che uccidono persone sconosciute. C’è chi uccide volontariamente, chi lo fa inconsapevolmente. Chi lo fa velocemente, chi lo fa lentamente.

Tra le mille e una combinazione che caratterizzano l’omicidio ci sono i figli che uccidono i propri genitori.

Seguitemi: due persone mettono al mondo, due persone crescono, una persona uccide chi ha creato e chi ha cresciuto. Genitoricidio. Scrivendolo il correttore di Word lo riconosce come errore, sottolineandolo in rosso. È una parola che suona male, stona. Eppure è un gesto antico come il mondo, i cui numerosi esempi si trovano fin dalle radici del cristianesimo, passando per la mitologia e ancorandosi alla realtà. In alcuni casi sono gesti d’impeto, mentre in altri sono esiti di una premeditazione durata giorni, mesi, anni. Il parricidio (omicidio del padre) ed il matricidio (omicidio della madre) non vengono considerati un errore da Word mentre il genitoricidio sì. L’ipotesi più drammatica.

Il reo è per lo più il figlio maschio, adolescente oppure tra i 30 e i 40 anni, convivente con i propri genitori, disoccupato o con un lavoro precario. Esistono fatti di cronaca in cui il reo è la figlia femmina, come ad esempio l’eclatante storia di Erika di Novi Ligure, che uccise mamma e fratellino ma è raro. Più propriamente chi uccide il genitore oppure i genitori è il figlio maschio.

Elementi ricorrenti sono la convivenza interna al nucleo e la mancanza o la precarietà lavorativa del reo.

Nella società attuale è pressoché normale realizzarsi, dal punto di vista lavorativo ed abitativo, più tardi dal punto di vista anagrafico rispetto al passato, in quanto si entra con maggior difficoltà nel mercato del lavoro. Il lavoro e l’autonomia che da questo può derivare, potrebbero fungere da ala di slancio dal contesto familiare d’origine ed, invece, tiene legati alla famiglia. Legati ed insoddisfatti. Legati e non autonomi. Ritrovandosi a trent’anni in un contesto di regole e di condivisione degli ambienti come quando si era molto piccoli o appunto adolescenti. Aggiungiamoci, a piacere, una fragilità psicologica o una psicopatologia.

In più la società attuale reca con sé un ulteriore aspetto controverso e pericoloso: i social. Il trentenne medio e l’adolescente medio hanno a loro disposizione un cellulare e una connessione ad Internet. E senza un lavoro stabile hanno anche tanto tempo libero.

Questi gli elementi per creare una bomba ad orologeria.

Perché? Perché i social sono “specchietti per le allodole”, fonte di aspettative e terra di disillusioni. Se un tempo la propria difficoltà ad “uscire dal guscio”, a “fare famiglia” e “a trovare il lavoro dei sogni” era un affare privato che interessava esclusivamente i genitori, qualche parente e pochi conoscenti o amici, oggi diventa questione pubblica. Qualsiasi tratto scomodo diventa questione pubblica. Più o meno consciamente. Attraverso ciò che pubblichiamo e attraverso ciò che guardiamo o seguiamo online.

Le persone postano “stati”, “stories”, “Tik-Tok” e foto della propria vita in continuazione. Immagini di una vita imbellettata ed infiocchettata, che poco hanno a che fare con la verità di ognuno ma questo non importa. Non importa se ciò che viene postato sia vero o falso. Ciò che importa è il sentimento che suscita in chi guarda: il desiderio. “…E cosa si desidera? Quello che vediamo tutti i giorni…”.

I desideri modellano le nostre aspettative. Le aspettative difficilmente sono equilibrate rispetto alle reali potenzialità di ognuno. I figli da sempre si trovano tesi tra il dover creare il proprio futuro e doversi difendere dalle aspettative che i genitori hanno verso di loro. Più o meno consapevolmente che sia, questo è un destino comune. Per alcuni una vera e propria condanna a morte.

Il movente spesso è una psicopatologia (patologia, psicosi, depressione, ecc.) ma in alcuni casi il movente è proprio solo un brutale esercizio di imposizione: il desiderio di liberarsi dal legame e dalle catene familiari; il desiderio di ritrovarsi unico erede di una grande ricchezza; il desiderio di vendicarsi magari unito ad una grande anaffettività.

I genitori spesso vengono vissuti come impedimento od ostacolo alla determinazione di sé, quando non addirittura come la causa stessa del fallimento e del vuoto esistenziale che caratterizzano l’esperienza e la personalità del figlio.

Nella letteratura sul tema si è arrivati a stilare una classificazione dei figli che uccidono, sulla base del movente: i “folli” che uccidono perché prede di un raptus di follia o perché prede di un disagio psichico più o meno gravi; i “vendicatori” che uccidono per riparare ad un danno che il capo-famiglia ha compiuto disonorando tutto il nucleo famigliare; i “libertari” che uccidono per liberarsi dal controllo o dal giudizio dei genitori (ne sono un esempio frequente le coppie di fidanzatini che uccidono i genitori che si schierano contro la loro relazione); gli “ereditieri”; i “litigiosi” che uccidono perdendo il controllo all’apice di una lite; i “mentitori” che uccidono per proteggersi ed al contempo liberarsi da anni di menzogne (esempio classico e molto frequente è quello degli eterni studenti in procinto di laurearsi ma in verità non iscritti a corsi di studio oppure con risultati molto scarsi) ed infine ci sono i “mostri”, coloro che seppure senza alcuna base psicopatologica apparente sterminano violentemente la famiglia. I senza ragione.

La famiglia e la casa sono sinonimi di sicurezza e protezione nell’immaginario comune, eppure talvolta diventano lo scenario del peggiore dei drammi. La famiglia è portatrice e culla di grandi emozioni, anche contrastanti: gioia, felicità, sofferenza, rabbia. La famiglia rassicura e protegge. La famiglia alle volte nasconde. La famiglia, tuttavia, è anche palcoscenico di grandi compromessi, emotivi o di fatto, sensi di colpa, desideri di rivalsa e riscatto, malumori, invidie. La famiglia è un’“arma a doppio taglio”.

Di fronte ad episodi di così tanta crudeltà ci si sente impotenti, senza parole. Come quando il proprio animale domestico ci attacca all’improvviso. Si rimane come raggelati, increduli. E scattano i “perché”. Alla fine capita sovente di sentir dire, da chi era vicino alla vittima, “eh ma lui/lei lo stuzzicava sempre…”.

E forse proprio questa lettura, anche se banale, è capace di aprire lo spazio ad una verità con cui fare i conti: un genitore per essere tale stuzzica. Stuzzica accudendo, stuzzica educando, stuzzica dando delle regole, stuzzica facendosi voce. L’adolescenza è l’età del risentimento. La post adolescenza è l’età dell’autonomia e della costruzione dell’adultità, dove più facilmente se si fatica o se non si hanno gli strumenti per uscire dal contesto domestico d’origine si cova più risentimento. Ed è lì, proprio in quel terreno fertile e limaccioso, che può accadere di vedere un figlio mordere con inaspettata ferocia.

Alla prossima riflessione!

Elisa Bertoja

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